Poetica
Poetica
Testi di Rosario Morra
La coda di paglia
Mi ero proposto di approfittare di questa occasione per scrivere il disagio di essere “pittori” oggi, volevo scriverne l’opportunità e la sconvenienza o l’immoralità.
Pensavo di analizzare la mia storia personale per evidenziare le contraddizioni generali.
Sono problemi non risolti e scriverne sarebbe prematuro, è più giusto rimandare alla bibliografia che avrebbe fornito gli argomenti che non potendo essere organizzati sarebbero rimasti la banalizzazione delle fonti. Organizzare poteva essere la remissione dei peccati o la condanna eterna.
Sono problemi che a vari livelli di consapevolezza costituiscono la coda di paglia di tutto l’ambiente artistico.
Si sente come colpa il proprio lavoro specialistico, ma il giudizio di immoralità non va circoscritto alla singola specializzazione (quasi fosse possibile evitarla quella, e non le altre) ma alla logica della produzione che è resa scientifica dalla “divisione del lavoro”.
Il ruolo specifico dell’intellettuale è quindi anche il suo senso di colpa.
Si cercano alternative che, più o meno serie - vanno dal multiplo presunta panacea di democratizzazione dell’arte, ai, più credibili, tentativi dell’animazione culturale – sembrano sempre un secondo impiego che, se rivela certo l’insufficienza del primo non riesce a sostituirsi ad esso.
Questa è una mostra, e non può essere niente “di diverso”, io sono un “pittore”, per quanto disagio possa provare da questa qualifica e non vale fingere o inventare intenzioni per giustificare i quadri: non so se è lecito farli, ma certo è mistificante considerarli diversi da quel che sono: oggetti raffinati prodotti da un lavoro specializzato.
Venezia 15 gennaio 1976
(dal catalogo della personale alla galleria dell'Opera Bevilaqua la Masa, Venezia, 26 gennaio - 8 febbraio 1976)
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Caro signor Cardazzo,
quest’estate ci siamo conosciuti a Venezia e le ho mostrato alcuni miei lavori, non credevo fosse possibile tanto presto avere una mostra nella sua galleria di Milano.
Ora manca poco all’inaugurazione e ci siamo incontrati ormai diverse volte a Venezia e a Milano.
Vorrei dirle qualcosa del mio lavoro anche se non mi è facile parlarne. Non tanto perché io non sappia giustificarlo o non ne abbia consapevolezza da un punto di vista formale.
Ma, se dichiarare la “propria poetica” poteva essere possibile e sufficiente sino a non molto tempo fa, oggi i dubbi sono tanti.
Siamo alchimisti: valutiamo per qualità, con ricette approssimative contro le formule esatte della chimica.
Il nostro risultato è affidato alla “sensibilità” dell’operatore e non all’uso corretto di strumenti di precisione.
Non si può negare un disagio che per me si è tradotto in un’ansia quasi manierista che inventa difficoltà: scrupolo nevrotico o raffinatezza decadente.
Lei però mi chiedeva soprattutto il perché di certe immagini; la scelta è in fondo emotiva: un tentativo attraverso le vecchie fotografie di recuperare una storia personale che gli spostamenti della mia famiglia rischiavano di compromettere e la necessità di esprimere il mio affetto attraverso questo modo che mi è più congeniale.
Spero di essere riuscito a suggerire una chiave di lettura che se pur parziale può essere almeno indicativa.
La saluto e spero di vederla presto.
Venezia, 3 marzo 1978
(dal catalogo della 689a mostra del Naviglio, Milano, marzo-aprile 1978)
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E’ con lentezza che si legge la poesia.
I metodi suggeriti dagli americani per leggere con incredibile velocità non servono dove ogni parola è la più importante.
Non so leggere la poesia perché richiede una assoluta concentrazione, ma compro i libri.
Sono lento, pigro, superficiale. Invidio l’abilità, riconosco la mia inettitudine.
Al gesto del virtuoso sostituisco il metodo, conscio di non aver inventato nulla tecnicamente e le citazioni sono tante, dai divisionisti ai fumetti per arrivare al retino tipografico (vera quadratura del cerchio o mutazione in oro) che consente con mezzi rigorosamente grafici “l’inganno” della terza dimensione, che così resta suggerita ma svelata e mai illusionistica. Una maniera di rappresentare che si giustifica rivelandosi, una scrittura che non vuole né può nascondere le sue caratteristiche strutturali. Il piccolo formato dei miei quadri è in fondo la necessità di avere davanti la pagina su cui (di)segnare. Lo scrupolo nevrotico della manualità (ogni nero è il risultato dell’accumulazione dei punti anche quando potrebbe essere realizzato in maniera più veloce) perché è proprio dal manoscritto, dall’andamento delle parole, dalla forma della singole lettere, dall’inclinazione che assume lo scritto quando manca il foglio rigato che al grafologo/analista si rivelano significati riposti: la scrittura è cioè un sogno da interpretare con metodo analitico.
Giovedì, 4 dicembre 1980
(dal catalogo della 733a mostra del Naviglio, Milano, 10 dicembre 1980/7 gennaio 1981)
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Ogni ombra cerca
la sua persona
e non trova che persone
in attesa
delle ombre loro
L. De Libero
La mia immagine riflessa nello specchio, l’ombra che il sole disegna ai miei piedi sono conferma della mia presenza ma mi fanno temere che l’altro, il riflesso si stacchi da me per vivere compiendo a mia insaputa delitti che mi saranno imputati.
La volontà di riunirsi al suo doppio annulla Narciso, lo specchio è origine algebrica che lo inghiotte.
La pagina è specchio che rivela oltre le spesso sgradevoli fattezze fisiche: il luogo magico dove non è dato mentire.
Agli strumenti del pittore ho sostituito aghi e punte sottili munite di serbatoio – le piccole clessidre che misurano il mio tempo – ai gesti ampi e a volte atletici il gesto lento e ripetuto della ricamatrice. Verso su superfici preparate l’inchiostro, da sinistra a destra, per linee parallele, correggo e ricopio le poesie che non so scrivere.
Giovedì, 4 dicembre 1980
(dal catalogo della 770a mostra del Naviglio, Milano, dicembre 1982)
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Se il dubbio è proprio del demonio terrò nascosto il piede, porterò un ampio cappello.
Gigetto Tito, pittore e figlio di pittore, mi raccontava che Arturo Martini, grandissimo scultore, nell’ansia di essere pittore realizzava sculture stupende che usava come modello per quadri modesti e considerandole solo strumentali le distruggeva mentre i quadri sono stati conservati.
Io ho sempre considerato il mio lavoro più vicino alla scrittura che alla pittura, se solo fossi capace di concentrazione sarei uno scrittore. Ma io non posso che presentare le cose e lo faccio cercando di essere realista e neutrale ed è solo credendo di astenermene che arrivo al giudizio mentre credo che l’esperienza per trasformarsi in scrittura ha bisogno di un giudizio chiaro ed esplicito.
La pittura realista richiede l’accettazione implicita ma non problematica dell’oggetto, è cioè possibile, come diceva Courbet, capire il soggetto anche dopo aver compiuto “il trasporto” è cioè dalla metafora che si comprende di che cosa si tratta.
Il pittore realista non fa riferimento a uno stile ma considera un metodo, parte ogni volta da zero.
M. C. Escher artista matematico scrive: “…mi sembra che si debba sempre ricominciare dall’inizio, senza contare su predecessori neanche per le nozioni fondamentali.” (Escher. Esplorando l’infinito. Pag.15 Garzanti).
Piero Guccione dice di dover ricorrere a un movimento costante del pennello, un solo gesto della mano, un movimento ripetuto quasi ritmico per ottenere il colore del mare o l’ombra di quelle piante perché altrimenti farebbe un quadro e non realizzerebbe l’emozione.
Evidentemente il risultato finale è comunque un quadro ma si rifiuta lo stereotipo, il luogo comune, lo stile insomma.
Esistono infatti nel pittore sincero alcuni atteggiamenti che lungi dall’essere necessari alla generalità dei pittori costituiscono e rivelano la sua poetica, vera “coazione a ripetere” (per Bonito Oliva) che può apparire mania quando è invece necessaria morale, ma solo per lui.
Gigetto Tito non poteva dipingere rovesciando il quadro o ponendolo in piano come se ciò dimostrasse incapacità o fosse una insincera scorciatoia, per me ad esempio è inaccettabile ottenere un nero in maniera veloce, deve nascere dall’accumulazione progressiva dei puntini neri.
E’ fondamentale come lo ottengo e quando mi chiedono di presentare un bozzetto del lavoro che intendo realizzare non ne sono capace, sarebbe certo possibile se la forma o il contenuto avessero la preminenza.
Purtroppo la necessità condiziona spesso il mio lavoro e sono costretto ad interrompermi quando vorrei cominciare. A volte può essere un bene perché comunque il risultato intermedio partecipa già all’ansia che mi spinge, ma è per me una grave frustrazione. Quando riesco a proseguire c’è un momento in cui l’aspetto formale, il “come è fatto”, ha il sopravvento, mi sembra allora si senta troppo l’inchiostro, che i neri siano pesanti, ma devo proseguire: è allora che può avvenire lo scatto ed è quasi un miracolo perché a quel punto ho solo preparato il supporto: una grossa spugna che può essere ora impregnata di poesia che ne trasformerà prima la consistenza poi la tingerà tutta del suo colore.
Ripenso però a quel collega del pittore Edmondo Bacci che mostrandogli un cerchio fatto con il compasso e campito scrupolosamente di rosso gli diceva: “Quando sarai capace di farlo?!” quasi si trattasse di un capolavoro inarrivabile ed io penso allora che mostrando i quadri, dopo averne tanto parlato, potrei accorgermi che si tratti proprio di quel cerchio e non so quanto diligentemente campito.
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...girò attorno a ogni cespuglio e a ogni albero, finchè la lentezza con cui lo faceva divenne una forma di riflessione.
(P.Handke, Pomeriggio di uno scrittore)
Per contenere i rischi e riflettere sull'esperienza, l'uomo prese a graffiare sulla roccia la sagoma dell'animale.
Forse segnava per terra e ripeteva ansiosamente la successione dei passi per raggiungere l'esatta sincronia e lo stacco finale doveva essere il risultato di quell'attesa, rappresa in un gesto unico e irripetibile.
Il manierismo...presuppone la conoscenza di uno stile a cui si crede di aderire e che invece si cerca incosciamente di evitare.
(W. Pinder)
Poi le immagini divennero feticci, il gesto un rito stilizzato. All'origine di ogni scrittura c'è la figurazione, ma è straordinaria la differenza fra una mela disegnata ( da Cézanne, da Giacometti o da Max Ernst) e la sua definizione scritta. Il cervello preferisce la scrittura, che permette di catalogare.
Zia Bianca gli raccontava che il nonno sceglieva le rose nel catalogo di Sgaravatti e le coltivava nel giardino della casa in cui anche lui era nato.
Forse era diventato pittore solo perché lo scrivere era tanto più degno: la rivelazione delle cose più importanti era avvenuta mentre lui dormiva? O mentre guardava dalla finestra il mare senza capirne la grandezza? Si fermava e guardava, lo sentiva fragoroso e ipnotico, sapeva quante suggestioni se ne potevano trarre per averlo letto da qualche parte, ma non le provava.
Più tardi, e non lo vedeva da anni, gli sembrò di capirlo: era una sospensione del respiro una pausa, la stessa che provava davanti a un quadro, un'esperienza simile all'estasi o a uno svenimento, un attimo nel quale credeva di aver capito tutto ma subito dopo gli restava la convinzione di aver visto ma di non saper ridire.
Non perseguono alcun fine pratico e neppure si propongono un piacere puramente estetico,ma rappresentano un tirocinio della coscienza.
(E.Herrigel, Lo zen e il tiro con l'arco)
Per parlare di poetica devo ricorrere a una necessità etica che non so motivare. Il rispetto di alcune regole, di un metodo, non è testardaggine o scelta estetica, ma ma un obbligo morale.
Abbandonare questi limiti non mi è concesso e cerco, quasi in una espiazione preventiva,il risarcimento che l'opera costituirà.
Inizialmente credevo, nell'accostare puntini, di voler ottenere un segno ansioso, che inciampasse continuamente, una scelta ancora espressionista e compiaciuta di manifestare giudizi ed emozioni. Poi è diventato un metodo per avere un controllo capillare dell'immagine.
E' proprio della scrittura e della musica l'uso di una sintassi e di un lessico codificati, regole precise che si apprendono più facilmente in giovane età. Così la scrittura e soprattutto la musica si insegnano con programmi consapevoli che, se non garantiscono la poesia, rendono facilmente riconoscibile il dilettantismo, ma, nelle arti figurative, con l'impressionismo, nasce la figura del “pittore della domenica” e si nega ogni competenza particolare.
Finestre:ciò di cui abbiamo bisogno...la vastità del reale è incomprensibile, per capirlo bisogna rinchiuderlo in un rettangolo.
(A. Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi)
Il retino tipografico mi era sembrato la soluzione. La mia cultura figurativa si era infatti nutrita di riproduzioni al punto che mi sentivo deluso, a volte, dagli originali.
Il retino era così intrinsecamente connesso alle immagini amate da risultare quasi uno strumento di lettura, una operazione critica. ( Non ha, in fondo, anche il cinema mutato la struttura dei nostri sogni?).
Ma un retino autografo che, esasperando la manualità, consentisse la rappresentazione e, senza richiedere un abbandono espressionista, fornisse un metodo.
Ciò che si chiama “tocco”...è...la qualità dei falsi talenti...invece dell'oggetto raffigurato, mostra il procedimento, invece del pensiero, rivela la mano.
(J.A.D. Ingres, dai Cahiers)
Ci sono opere che sono caratterizzate dall'esecuzione estemporanea come la musica Jazz o la pittura informale, altre più vicine al metodo scientifico, sembrano ripetibili da qualsiasi operatore che applichi il protocollo fissato, come la musica classica o i quadri del Canaletto che, effettivamente ne prevedeva repliche inammissibili per Jackson Pollock.
Io vorrei che le mie cose avessero l'evidenza di un teorema che non serve dimostrare.
mestre,19 giugno 2001
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Riconoscere la qualità di un artista dalla sua "novità" o " carica rivoluzionaria" è una pretesa che la critica più accorta ha ormai superato, da Gombrich a Jean Clair,per non dire di Arturo Schwarz (fra i pochi a capire subito Duchamp che certo non non può essere considerato un artista retrogrado).
Francesco Bonami scrive di Lucian Freud che si è trattato di un "artista retrogrado", io credo che questo giudizio offenda e mortifichi chiunque oggi lavori, in qualsiasi modo e con qualsiasi tecnica, nell'ambito delle arti figurative.
Certo, io sono un "artista retrogrado", vivo e mantengo una famiglia con questo lavoro sforzandomi di essere sincero ed onesto.
Da molti anni mi domando come mai dopo la Pop Art si tenda a negare con un atteggiamento moralistico (questo davvero retrogrado), l'opportunità di dipingere.
Mentre le avanguardie letterarie e musicali hanno saputo superare gli eccessi di quel momento certa critica non ha concesso questa possibilità alla pittura, forse il mercato non poteva rinunciare ai propri investimenti sbagliati e forse qualcuno griderà prima o poi "il re è nudo!". Io non so se dipingere sia giusto o immorale ma credo che un'opera d'arte debba essere letta con strumenti adeguati, grammi e centimetri non si possono sommare.
Un dipinto è un dipinto e Lucian Freud un grandissimo pittore.
23.07.2011